Ciao, oggi sarò lunga. Spero che avrai la pazienza di arrivare fino alla fine perché sto andando a parare da qualche parte.
Mi sono andata a comprare «Domani» per leggere l’articolo di cui parlavi, quello a pagina 8 di Andrea Casadio. Ti ringrazio molto per la segnalazione.
Nella narrazione e nella ricostruzione dello stupro, di qualsiasi stupro, trovo che vengano fatti degli errori sistematici di bidimensionalità: si mira a dividere i buoni dai cattivi invece di mettere l’accento sulle risorse evolutive delle donne che hanno subìto la violenza. Il discorso sullo stupro si risolve quasi sempre dicendo che lui era un carnefice e lei era una vittima, ergo lui va punito, lei va difesa. Mai, mi risulta, vengono forniti alla donna degli strumenti di protezione o di crescita. Gli unici strumenti che le vengono forniti sono quelli della denuncia. In sostanza: lei era OK, lui non era OK; lui deve cambiare, a lei invece non è richiesto niente. Deve continuare a stracciarsi le vesti, denunciare gli abusi e occasionalmente farsi ammazzare, finché il mondo non sarà diventato un luogo ideale, dove le femmine possono andare in giro nude e ubriache e i maschi si tengono il cazzo nei pantaloni. Dire che lei abbia sbagliato qualcosa equivarrebbe a dire che se l’è andata a cercare. Quindi benissimo così, pupa, nuda e ubriaca in mezzo a un manipolo di criminali. La colpa è loro e lo dimostreremo, tu non hai sbagliato nulla.
A me piacerebbe vivere in un mondo ideale. Purtroppo la grande fregatura del mondo ideale è che non esiste.
La narrazione dello stupro racconta di una donna-agnello, di norma troppo buona, indifesa, ingenua e permissiva, che è finita tra le grinfie di un lupo senza scrupoli. Probabilmente è un racconto accurato: nel senso che nella maggior parte dei casi temo vada proprio così. Ti parlo, fra l’altro, non solo da donna, ma anche da vittima di abusi sessuali e da volontaria che ha lavorato con detenuti che hanno commesso reati contro le donne; conosco bene lo stato di «freeze» di cui parla l’articolo. È tra l’altro un codice di comportamento diffuso anche nel mondo animale: nella danza fra predatore e preda, il banchetto si consuma proprio nella concessione di alcuni segnali da parte della preda quando si rassegna a farsi mangiare. Dunque non metto neanche per un attimo in discussione le storie delle mie sorelle, né la malafede e spesso la malasorte degli uomini che perpetrano reati contro di loro.
Quello che non mi funziona di questi processi giudiziari è il focus. Il punto, pare, è stabilire se il predatore fosse effettivamente un predatore. Era il figlio di Beppe Grillo un efferato predatore? Sì - ipotizziamo. Quindi? Quindi giustizia è stata fatta. Se questo da un lato può alleggerire i cuori, e magari - si spera - rendere le donne un po’ più consapevoli di vivere all’interno di un sistema oppressivo e di sfruttamento sessuale, dall’altro non risolve minimamente il problema, perché la foresta pullula di lupi dall’inizio dei tempi: credo sia davvero utopistico credere nella loro redenzione. Se l’obiettivo è la nostra sicurezza, ho il presentimento che stiamo sbagliando strategia. Non si possono sterminare tutti i lupi; e anche una volta sterminati tutti i lupi, il mondo resterebbe popolato di agnelli disorientati che non sanno difendersi, e il femminismo non avrebbe fatto un passo avanti. Dovessero i predatori redimersi, o cessare di esistere, noi resteremmo comunque delle prede ambulanti. Il problema si risolve mettendo la preda nelle condizioni di prendere contezza di sé affinché non sia più una preda, indipendentemente da come gli altri decidono di agire verso di lei. Io sono un’appassionata di fiabe: i furfanti, i furbi, i lupi esistono nei racconti umani dall’inizio dei tempi perché incarnano degli archetipi, e ti assicuro che gli archetipi e le loro funzioni non sono estirpabili. Se non ti fidi di me, o delle fiabe, chiedi a un antropologo.
Ora, non dico che il furfante che stupra, il furbo che ruba non debbano essere puniti dalla Legge - puniteli: anche la punizione esiste dalla notte dei tempi; sbatteteli in galera, trafiggete i loro corpi e fateli mangiare dalle poiane, se pensate che questo possa dare qualche sollievo alla comunità, ma, insisto, la punizione non risolve il problema, né tanto meno è un atto femminista.
Femminismo per me significa self-empowerment, e self-empowerment significa che la donna un tempo imbelle diventa saggia, occhiuta: sa dove e con chi ubriacarsi, sa che deve prendere un’altra strada quando vede un vicolo buio, sa che il mondo ideale non esiste, è (Dio mi perdoni se ogni tanto mi ritrovo a dover dare ragione alla Meloni) una ragazza «con la testa sulle spalle». Avere la testa sulle spalle non significa permettere al predatore di fare quello che vuole: significa esattamente il contrario, significa riconoscere che un lupo è un lupo e sapersene difendere. Significa sviluppare dei sensori, rendersi autonome, scaltre, responsabili, disporre di strutture difensive vigili e scattanti. L’alternativa è continuare a finire nella pancia del lupo perché incapaci di distinguere un lupo da una nonna, e sperare nell’arrivo di un cacciatore che ci tiri fuori (aggiungo, con un pizzico di femminismo irredento, di quello con i canini scintillanti, che la Legge è maschile; niente è più patriarcale della Legge.) Dopotutto, Cappuccetto Rosso non è la storia di una donna: è la storia di una bambina. Una bambina che deve diventare donna, una bambina che si mette in pericolo per ingenuità, e lo fa affinché possa diventare donna.
Ciao
Valeria